domenica 29 marzo 2015

Luna rossa (2)

Più del parto, più dell’indifferenza di Eeta, più del pianto costante e acuto dei gemelli, erano state le continue visite dei medici e degli indovini a rendere gli ultimi due mesi un vero supplizio. Idia avrebbe voluto al suo capezzale soltanto Dafne e Thalia, la sua ancella, e invece aveva dovuto sopportare la presenza di improfumati esseri ossequienti che vegliavano alacremente sulla sua guarigione, più per salvarsi la testa che per reale devozione. In fondo lei era sempre la regina, il sangue di Oceano scorreva nelle sue vene, e per quanto Eeta fosse indifferente alla sua salute, nessun sapiente o presunto tale sarebbe sopravvissuto alla propria negligenza. 
Ma in quella assolata mattina di inizio estate, Idia sentiva di potersi lasciare tutto alle spalle. I ricordi più amari sembravano essere svaniti, accantonati in un angolo della memoria come brutti sogni, lasciando così spazio al pieno godimento dell'aria frizzante del giardino, delle fragranze dei fiori miste al profumo di neonato. 
Per Idia quell'odore era il più inebriante di tutti, quell'odore unico al mondo, che sapeva di freschezza e innocenza. Dopo tanti anni lo aveva ritrovato. Piccole rughe le si formarono ai lati degli occhi e la bocca si stese in un leggero sorriso, mentre la piccola Medea stringeva in una manina l’indice della madre, beandosi del dolce sapore del latte e del canto sommesso di una ninna nanna.

«Guardali, Dafne: non sono i bambini più belli che tu abbia mai visto? Sono perfetti.», sussurrò la regina, senza nascondere il suo orgoglio.

Dafne rise, mentre batteva con colpetti leggeri sulla schiena di Apsirto: «Sì, mia signora. E continueranno ad esserlo anche quando ti stancherai di ripeterlo.». La guardava con l’aria di chi aveva sentito molte madri chiederle la medesima cosa.

La regina rispose allargando ancora di più il suo sorriso: si era affezionata a quella donna tanto pungente quanto abile. Senza di lei, forse sarebbe stata una balia a dare il latte alla piccola Medea al suo posto. 
Idia riprese a intonare il suo canto, e anche Dafne cominciò a cullare Apsirto al suono di quelle note.

«Sembra di sentire il gorgoglio di un ruscello di montagna. Era tanto che non ti sentivo cantare, mia signora. - osservò la nutrice con un mezzo sorriso – La lingua dell’Anello del mare riesce ancora ad arrivare tanto lontano?».

Il canto di Idia sfociò in una risata. «Qualche volta, quando il mare torna sereno dopo una tempesta. Ed oggi, a quanto pare, il sole splende. Vero, stellina?». Medea agitò la testa con un gemito di disapprovazione e la madre riprese a cantare.

La nutrice la interruppe di nuovo. «É lo stesso canto che faceva addormentare Calciope...mi pare...ma non ricordo che cosa significa...»

«È la leggenda di una sirena innamorata del marinaio che vuole catturarla e portarla come trofeo nelle sue terre. - spiegò la regina, continuando a modulare la voce per ingannare la bambina - Mia madre me la cantava quando ero piccola durante le nostre passeggiate nella laguna…secoli fa, ormai». “Forse troppi.”, pensò poi fra sé e sé. Lentamente, ricordi sfocati iniziarono ad affiorarle alla memoria. 

La pelle bianca come la spuma del mare di sua madre Teti. I suoi occhi azzurri…o forse erano verdi? Forse un colore a metà tra i due, Idia non ne era più certa. E la sabbia sottile, dorata, che si infiltrava fra le dita dei suoi piedi quando esplorava la laguna, o le umide caverne che costellavano le pareti rocciose delle isole più piccole. Idia lasciava spesso che suo padre la portasse da un’isola all'altra, cullandola come lei ora faceva con la sua Medea. Quanto avrebbe voluto che anche i suoi figli conoscessero quelle spiagge e quelle colline, e che ascoltassero il rombo del vulcano che si risvegliava. Quando accadeva, Idia ne aveva paura, ma sua madre le diceva che mai il dio che lo abitava avrebbe fatto del male a un’isola tanto bella.

Un doloroso morso sdentato di Medea interruppe bruscamente il flusso dei ricordi. L’ultima goccia di latte si tinse leggermente di rosso. «Basta così, piccola famelica!». Idia staccò la figlia dal seno e si ricoprì, affibbiandosi sulla spalla i lembi della veste color amaranto.
Quando Medea, sazia di latte, chiuse gli occhi in un sonno pacifico, Idia la sollevò per portarsela al petto. Un abbraccio, però, che non durò a lungo.

«Mia signora Idia! Padrona!». Zemah, una delle schiave colche che riempivano il palazzo era piombata nel giardino, in una corsa forsennata. Ed era trafelata, senza fiato, paonazza. 

Idia non ebbe bisogno di chiedere spiegazioni, bastò il suo sguardo sconcertato a dare il permesso a Zemah di parlare, a singhiozzi ovviamente. «Mia signora, Thalia…è ferita…non so come… c’è tanto sangue…».
Ma a quell' "è ferita", la regina si era già alzata, aveva consegnato Medea alla nutrice esterrefatta quanto lei, ed era rientrata nel palazzo, accompagnata dalla schiava ansimante.

Continua...

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