sabato 20 dicembre 2014

Immune ai sacrilegi (2)

Ad attenderlo nella sala, ormai ripulita dai resti dell’incursione di cinque giorni prima, stava un uomo in abiti da viaggio impolverati e logori. La corporatura snella rivelava una certa solidità nel dorso ampio e nelle gambe ben piantate, la barba e i capelli sotto la polvere erano ancora nerissimi. 
Non appena vide Pelias avvicinarsi, l’uomo allargò le braccia e gli rivolse un largo sorriso. «Cosa deve fare un ospite in questa casa per avere offerto del vino e un bagno caldo? – chiese, ridendo – Non sei un bravo padrone di casa, fratello!». I tratti del viso erano in tutto simili a quelli Pelias, salvo che per l’assenza di rughe e un’espressione gioviale, che spesso si contrapponeva allo sguardo arcigno del fratello maggiore. 

Anche quella volta Pelias non era in vena di scherzi. «Neleo! Sei arrivato, finalmente! – rispose corrugando le sopracciglia – Se avessi tardato ancora mezza giornata, ti avrei considerato escluso dagli accordi.».

Neleo roteò gli occhi, sospirando di noia alle minacce del fratello. «Sai, la Messenia non è proprio dietro l’angolo. E i cavalli hanno bisogno di cibo e riposo durante un viaggio così lungo. Per Zeus, Pelias, è così che si accoglie un parente che non vedi da due anni?». Si slacciò il mantello e lo lasciò ricadere in una nuvola di polvere, mentre Pelias dava sfogo al suo malumore, camminando da una parte all’altra della stanza. 
Neleo mostrò di non farci caso e continuò: «Inoltre, se non sbaglio, sei stato tu a consigliarmi di stare lontano dalle strade più battute, “per non dare nell’occhio”, hai detto! Questo, mio caro, ha allungato di molto il mio viaggio, per non parlare…».

«Adesso basta! - sbraitò Pelias, esasperato da quel cicaleggio saccente - Ne ho abbastanza delle tue scuse! Se non fosse stato per me, quel bastardo di Esone sarebbe ancora vivo! Tutto ciò che è nostro di diritto sarebbe stato ancora nelle sue mani, se avessi aspettato che tu arrivassi con tuo comodo!». Si avvicinò al fratello, col viso appena a un palmo dal naso, mentre lui continuava a guardarlo con l’aria tediata di chi sa già cosa sta per sentire. 
Pelias gli afferrò le braccia con entrambe le mani: «Come puoi essere così indifferente alla nostra causa? A volte dubito che abbiamo lo stesso sangue!». Lo lasciò andare con una smorfia di disprezzo.

Neleo, invece, continuava a guardarlo tra l’annoiato e il divertito. Difficilmente qualcosa riusciva a impressionarlo, men che meno i rimproveri di suo fratello. «Oh, mio caro Pelias, sono figlio del divino Poseidone quanto te, te lo assicuro! Certo, a vedere quanto il tempo sia stato molto più crudele con te che con me, anch’io non direi che siamo usciti da nostra madre lo stesso giorno. Il Signore dei Mari non poteva lasciarmi eredità migliore del mio aspetto! Tu invece sembri appassire ogni anno di più. Dovrei essere io ad avere dei dubbi sulla tua natura, se i miei piedi non ti avessero preso a calci fin dal ventre materno!». E scoppiò nella risata che di solito metteva fine a ogni polemica. 

Ma questa volta Pelias non uscì dalla stanza pestando i piedi. La sua destra, invece, corse alla gola di Neleo in uno scatto inaspettato. «Posso rimediare agli errori del tempo in un istante, fratello. Magari perderai i denti prima di me!». Pelias non era svelto di lingua come il fratello, ma stavolta le parole ebbero il loro effetto. La risata di Neleo cessò di colpo e allora Pelias gli permise di deglutire. «Nostra madre e la sua ingratitudine sono la causa di questi capelli bianchi e di queste rughe. Non c’entra niente il mio sangue!».

«Era solo un gioco, Pelias», commentò Neleo massaggiandosi il collo, la voce ancora roca, ma sempre annoiata. «Non hai mai imparato a ridere dei miei giochi».

Pelias aveva ripreso a camminare furente, sbuffando come un toro. «E tu non hai mai imparato a giocare di meno e ad agire di più! Ho sempre dovuto lottare io per tutti e due. Anche ora, io mi imbratto le mani di sangue e fango e tu vieni a prenderti gioco di me e delle mie fatiche!»

«Non oserei mai recarti una simile offesa.» rispose Neleo, per nulla turbato. «Io rispetto le tue… fatiche. E sono pronto ad ammettere che in queste cose tu sei sempre stato più valido di me. Persino nostra madre è stata costretta ad ammetterlo...» Sapeva quali corde toccare e lo faceva sempre con un sorriso sardonico che Pelias non poteva soffrire.

«Non osare.» sibilò, fulminandolo con lo sguardo. «Per lei ho fatto sacrifici che tu non riusciresti neanche a concepire! Ho sfidato gli dei stessi, per lei!»

Neleo aprì la bocca in un sonoro sbadiglio e iniziò a massaggiarsi i muscoli delle spalle, contratti per la stanchezza. «Più che una sfida, - puntualizzò, con la solita aria di scherno – direi che uccidere una donna nel tempio di Hera potrebbe definirsi sacrilegio! Certo, nostra nonna era una vecchia davvero insopportabile…ma fossi in te, non me ne vanterei più di tanto.».

Questo era troppo. «E tu non hai forse goduto dei vantaggi dei miei sacrilegi? – ruggì Pelias - Tutto ciò che ho fatto, tutto il sangue che ho versato fino ad oggi è stato per noi, per reclamare i diritti di nascita che nostra madre ci ha portato via, sposando un lurido re mortale e preferendo a noi quel bastardo di Esone! Lei ha sputato sull’amore del divino Poseidone, ma io non ho commesso lo stesso errore! Io sono immune ai sacrilegi!» La grossa vena sul collo di Pelias sembrava sul punto di scoppiare.

Neleo fece un piccolo passo indietro, tenendo d’occhio le mani del fratello, e solo quando lui gli voltò di nuovo le spalle emise un sospiro di sollievo. «Possibile che dopo tutti questi anni torniamo a litigare sempre sugli stessi argomenti?». La noia era sempre presente nella sua voce, ma decise di provare a mettere una mano sulla spalla del fratello, in segno di riconciliazione: «Conosco bene tutti i tuoi sacrifici, Pelias, e non posso che essertene grato. Sai che onorerò gli accordi e ti aiuterò in tutti i tuoi progetti. Dimentica il passato, scaccialo con le ombre dei tuoi nemici che ormai giacciono nell’Ade. Goditi la vittoria del presente e contempla il potere che ti aspetta in futuro. Io starò al tuo fianco e nessuno oserà tenere testa alle nostre forze unite. Il palazzo è tuo, così come il regno di Iolkòs. Perciò perché continui a roderti il fegato in questa rabbia senza fine?».

Pelias gonfiò il suo enorme petto in un altro sospiro, prima di rispondere: «Il figlio di Esone è ancora vivo. Stando a quanto dicono i miei uomini, quella folle di Polimede lo avrebbe affidato a un cavaliere sbucato dal nulla e scomparso con la stessa velocità.».

Neleo sollevò un sopracciglio, perplesso: «E tu ti fidi dei vaneggiamenti di un pugno di ubriachi che inventerebbero qualsiasi cosa, pur di salvarsi la testa? Probabilmente lo avrà nascosto in qualche grotta o capanna abbandonata. Se è così, il piccolo avrà già fatto la fine di suo padre.»

Pelias scosse la testa. «L’ho pensato anch’io, per questo ho setacciato personalmente la foresta in lungo e in largo, ma non ho trovato traccia né del bambino, né di…cavalli. Sembra sparito nel nulla.». 

Neleo abbozzò uno dei suoi sorrisetti sfottenti. «Non mi dire che credi alla storia del cavaliere!». Fece segno a uno schiavo di passaggio di portargli del vino.
Pelias lo guardò infastidito per un lungo momento, prima di rispondere. «Se anche fosse, sarebbe un cavaliere fantasma, perché ti ho detto che non ho trovato tracce!». Si rendeva conto di cedere sempre troppo facilmente alle provocazioni di Neleo, ma l’autocontrollo in quel momento era l’ultimo dei suoi pensieri.

E intanto Neleo continuava a ridere. «Magari qualche lupo sta rompendo il digiuno proprio in questo momento. Non credo che quelle bestie facciano molta differenza tra un bambino e un agnello!»

«E allora perché non ho trovato ossa, brandelli di vesti o qualche resto sanguinolento?», ribattè Pelias sempre più irritato.

Intanto Neleo prese la coppa di vino dalle mani di uno schiavetto, ringraziandolo con una pacca sulle natiche. «Animali furbi, i lupi!», rispose con prontezza. «È solo un bambino in fasce, Pelias! Se non è stato ancora sbranato, morirà presto di stenti in qualche anfratto del bosco!». Si mise a sorseggiare il vino, senza l’ombra della preoccupazione.

Pelias guardò il fratello dritto nelle iridi blu come il mare, identiche alle proprie: «Anche noi, quando eravamo ancora in fasce, siamo sopravvissuti all’abbandono. Se dovesse spargersi la voce che l’erede di Esone è ancora vivo, il regno sarebbe continuamente funestato da rivolte…».
«…che reprimeremo prontamente.», concluse Neleo con sicurezza.

Pelias emise un grugnito di impazienza, riprendendo a camminare per la stanza. «Non posso e non voglio lottare per sempre! Mantenere il potere è più arduo che conquistarlo. Finché ci sarà qualcuno convinto che il sangue di Esone potrà tornare a governare, né io né la mia famiglia godremo di sonni tranquilli.». 
Raramente Pelias nominava la sua sposa o i suoi figli e questo sembrò togliere a Neleo ogni voglia di commentare nei suoi modi sarcastici. Anche Pelias sembrava stanco di quella conversazione e, in silenzio, immerso in chissà quali riflessioni, andò a fissare lo sguardo su uno degli affreschi del megaron. Un corteo di fanciulle inghirlandate, che levavano le braccia bianche a offrire libagioni a Zeus, Padre dell’Olimpo. 
Neleo lo imitò e iniziò a girare per le pareti della sala reale, guardando ora le pitture, graffiate in qualche punto, ora i resti bruciacchiati di un tendaggio, ora una goccia di sangue incrostato su una mattonella del pavimento, che cercò di grattare via con la punta del suo calzare.

Pelias si era accasciato esausto sul trono appartenuto al fratellastro Esone, gli occhi fissi sul focolare pieno di cenere al centro della sala, quando la voce calma di Neleo richiamò la sua attenzione. «Organizza un funerale per il bambino – disse, senza staccare lo sguardo da quella goccia di sangue – Una cerimonia pubblica, a cui tutti potranno partecipare per assistere alle esequie dell’erede. Dirai che è stato colpito da un male improvviso e che il suo tenero corpicino non ha resistito agli ardori della febbre.». Quando rialzò la testa, Pelias notò un certo scintillio lampeggiargli negli occhi, lo stesso che molte volte gli aveva visto in passato prima che mettesse in atto qualche nuova astuzia.

Il nuovo padrone del megaron iniziò a grattarsi il mento. «Mh…Ma vorranno vedere un corpo… - obiettò – Persino un asino si accorgerebbe della messinscena senza una salma da onorare.».
Neleo si avvicinò di nuovo al fratello, con aria compiaciuta. Il suo sorriso adesso avrebbe fatto rabbrividire il dio Ade in persona. Avvicinò la bocca all’orecchio di Pelias, di certo non per paura che qualcuno potesse sentirli. Il tocco della mano sulla sua spalla e il fiato nel suo orecchio rinnovò in Pelias quel senso di complicità che così spesso metteva in discussione. 

Neleo sussurrò: «Lascia che me ne occupi io.».

domenica 7 dicembre 2014

Immune ai sacrilegi

Un raggio di sole trapassò la barriera delle ciglia e Polimede si svegliò. Aveva sete. Si sentiva come se l’avessero strappata all'oscurità dell’oltretomba: la luce del giorno, che irrompeva nella stanza da una finestra proprio di fronte a lei, le feriva gli occhi, alimentando un martellante mal di testa. La gola riarsa le impediva di emettere il benché minimo suono ed ogni singolo osso del suo corpo le doleva talmente, che pensava fosse sul punto di spezzarsi. Sentì un vago rumore di passi concitati vicino a lei: qualcuno doveva essere uscito di corsa dalla stanza. Tentò di mettersi a sedere, nonostante la vista ancora annebbiata, ma non appena provò a muovere il braccio destro, una fitta di dolore paralizzante le tolse il respiro. Polimede ebbe la sensazione che una vampata di fuoco le rodesse la carni dalla spalla fino alla base della schiena. Dal bacino in giù, invece, niente. Non sentiva neanche lo sfregamento del lenzuolo che la copriva. E questo la terrorizzò.
“È successo davvero…”. La donna sentì la gola serrarsi in un groppo. Per un attimo aveva sperato di essere ancora nel suo talamo, sul suo letto, accanto al suo sposo. Aveva sperato di aver solo sognato quella notte di sangue. La realtà, invece, la raggiunse in una stanza angusta, su un giaciglio stretto e un materasso di paglia. Aveva la sensazione che fosse ancora nel suo palazzo, ma doveva trovarsi in uno degli alloggi destinati agli schiavi.
A fatica portò la mano sinistra al petto e al fianco: aveva il busto coperto di bende di lino e un impacco d’erbe ancora fresco e maleodorante sulla spalla, nel punto in cui una delle frecce l’aveva trafitta. Non fece in tempo a chiedersi come fosse arrivata fin lì, che una voce alla sua sinistra venne a risponderle.

«Sei ancora nel palazzo, mia signora. O meglio, quello che era il tuo palazzo.». Una voce d’uomo confermò la sua sensazione. Era profonda e suadente, ma alle orecchie di Polimede suonò come il sibilo di un cobra. 
«Pelias…», sussurrò la donna in una smorfia di disgusto. Rimase immobile, con lo sguardo fisso sulle travi del soffitto. La sola idea di guardare in faccia quel traditore, quell'assassino, quel demone, la ripugnava. Sentiva l’impulso di saltargli alla gola e farlo a brandelli con le mani e coi denti. Ma non ne aveva le forze e preferì ignorare l’istinto piuttosto che vederlo frustrato.
Non riuscì, però, a resistere alla tentazione di voltarsi, quando udì il rumore sordo di qualcosa gettato sul pavimento accanto a lei. Girò appena la testa, quel tanto che bastava per vedere con la coda dell’occhio due oggetti rotondi, ricoperti di una peluria bruna. Dapprima non capì che cosa fossero, ma poi una delle due sfere continuò a rotolare verso di lei, rivelando in un ultimo giro una faccia livida, con occhi e bocca spalancati. Erano due teste. La pelle cerea, le pupille vitree, i capelli e il mento sporchi di sangue incrostato, lì dove una lama le aveva separate dal corpo. 
Polimede fu presa da un conato, che a stento riuscì a trattenere. Nel distogliere lo sguardo da quell'orribile scena, la donna incontrò suo malgrado quello di Pelias, che sfoggiava un affabile sorriso, guardandola dall'uscio della stanza. Dietro di lui una schiava stava in piedi, appoggiata allo stipite della porta, con evidenti segni di violenza sul viso e sulle braccia. Doveva essere stata lei ad avvertire il nuovo padrone del risveglio della sua prigioniera. 

«Avevo ordinato loro di non farti del male, mia signora – riprese Pelias, indicando i due macabri resti – Come vedi, sono stati adeguatamente puniti.». Si avvicinò al letto di Polimede, calciando via una delle teste che lo intralciava. «Purtroppo è difficile trovare uomini capaci di eseguire gli ordini come si deve.», aggiunse. Aveva un’espressione di accondiscendenza sul volto, mentre con una mano si lisciava la barba ben curata, che accennava a incanutirsi. Nonostante l’età non più giovane, tutta la sua persona mostrava una forza ancora notevole e temibile: il collo taurino, le spalle larghe, il busto dritto e solido, come fosse di pietra. Tuttavia la brutalità del suo corpo era ben dissimulata da una maschera di gentilezza, che sapeva indossare con disinvoltura nel momento più opportuno.

Polimede non poteva tollerare un’ipocrisia tanto crudele: «Hanno ben eseguito il più empio dei tuoi ordini! – ringhiò in risposta, con voce rauca – Hanno ucciso il mio sposo. Hanno ucciso tuo fratello! E se avessero ucciso anche me, li avrei benedetti dalle profondità dell’Ade. Eppure le tue mani sono più insanguinate delle loro!». La gola le bruciava tremendamente ad ogni parola, ma non le importava. La vista di quel volto impassibile e soddisfatto alimentava in lei una rabbia più grande del suo dolore. «Che le Erinni ti perseguitino in eterno.», lo maledisse, ritirando lo sguardo. 

Pelias la guardava come si guarda un bambino capriccioso, poco curandosi delle sue maledizioni e ancor meno del suo odio. «Mia cara Polimede, - disse sedendole accanto sul letto – è così che ripaghi la mia pietà? Se non fosse stato per me, adesso giaceresti nella foresta a far da cibo agli uccelli e da concime agli alberi. Dovresti mostrare più gratitudine al tuo salvatore!».

Per tutta risposta, Polimede gli sputò in pieno viso.

Pelias si asciugò la guancia con il dorso della mano, reprimendo in uno sbuffo la voglia di ricambiare l’insulto con un manrovescio. Riprese il sorriso che aveva abbandonato per un istante e disse: «Cerca di essere ragionevole, mia cara cognata. Ti sto dando la possibilità di salvare te stessa e tuo figlio.».
A quella frase, il volto di Polimede si irrigidì. 
«So che è vivo. – continuò Pelias - Dimmi dov’è e a chi l’hai affidato e ti prometto che manderò i miei uomini a prenderlo, per restituirlo alle tue cure. Crescerà qui con te e sarà trattato come uno dei miei figli. Non gli sarà fatto alcun male.».

Polimede scoppiò in una risata soffocata, tanto tremenda quanto inaspettata. «Se queste sono le tue promesse, “mio salvatore”, ringrazio gli dei che il mio bambino sia morto!».
Pelias sbuffò ancora spazientito. La maschera si dissolse. «Non mentirmi, donna! So che l’hai affidato a qualcuno nella foresta. Dimmi a chi, o giuro che assaggerai le pene dell’Ade prima ancora di varcarne le soglie!».

Polimede continuava a ridere in faccia alla frustrazione del suo aguzzino. Poi con un immenso sforzo si alzò sui gomiti, avvicinando ancora di più il suo volto a quello di Pelias. «Mio figlio è morto. – sussurrò, scandendo ogni sillaba – Puoi fare di me ciò che vuoi, puoi divorare le mie carni crude, come il cane che sei, ma non riuscirai a cambiare queste parole. Mio figlio è morto!».
Le iridi di Pelias, dello stesso blu profondo degli abissi marini, furono attraversate da un lampo d’ira, ma lui non emise un fiato. Lentamente, poggiò una mano sulla spalla ferita di Polimede e iniziò a stringerla con forza, obbligando la donna a sdraiarsi di nuovo, tra spasmi di dolore. 
«Riposa, mia signora. Il sonno e il tempo guariranno di certo il tuo enorme lutto.». Disse con la sua solita voce melliflua, prima di alzarsi e lasciare stanza. Polimede emetteva rauchi mugugni per la sofferenza del corpo, ma con gli occhi e le labbra godeva della sua vittoria.

Nell'uscire, Pelias riversò tutta la sua rabbia sulla schiava, che era rimasta a guardare sulla soglia. Afferrandola per i capelli, la spinse violentemente verso il letto di Polimede e ordinò: «Fa’ che viva. Se morirà, tu la seguirai sul rogo». Detto questo, a grandi passi nervosi si diresse verso il megaron.