domenica 7 dicembre 2014

Immune ai sacrilegi

Un raggio di sole trapassò la barriera delle ciglia e Polimede si svegliò. Aveva sete. Si sentiva come se l’avessero strappata all'oscurità dell’oltretomba: la luce del giorno, che irrompeva nella stanza da una finestra proprio di fronte a lei, le feriva gli occhi, alimentando un martellante mal di testa. La gola riarsa le impediva di emettere il benché minimo suono ed ogni singolo osso del suo corpo le doleva talmente, che pensava fosse sul punto di spezzarsi. Sentì un vago rumore di passi concitati vicino a lei: qualcuno doveva essere uscito di corsa dalla stanza. Tentò di mettersi a sedere, nonostante la vista ancora annebbiata, ma non appena provò a muovere il braccio destro, una fitta di dolore paralizzante le tolse il respiro. Polimede ebbe la sensazione che una vampata di fuoco le rodesse la carni dalla spalla fino alla base della schiena. Dal bacino in giù, invece, niente. Non sentiva neanche lo sfregamento del lenzuolo che la copriva. E questo la terrorizzò.
“È successo davvero…”. La donna sentì la gola serrarsi in un groppo. Per un attimo aveva sperato di essere ancora nel suo talamo, sul suo letto, accanto al suo sposo. Aveva sperato di aver solo sognato quella notte di sangue. La realtà, invece, la raggiunse in una stanza angusta, su un giaciglio stretto e un materasso di paglia. Aveva la sensazione che fosse ancora nel suo palazzo, ma doveva trovarsi in uno degli alloggi destinati agli schiavi.
A fatica portò la mano sinistra al petto e al fianco: aveva il busto coperto di bende di lino e un impacco d’erbe ancora fresco e maleodorante sulla spalla, nel punto in cui una delle frecce l’aveva trafitta. Non fece in tempo a chiedersi come fosse arrivata fin lì, che una voce alla sua sinistra venne a risponderle.

«Sei ancora nel palazzo, mia signora. O meglio, quello che era il tuo palazzo.». Una voce d’uomo confermò la sua sensazione. Era profonda e suadente, ma alle orecchie di Polimede suonò come il sibilo di un cobra. 
«Pelias…», sussurrò la donna in una smorfia di disgusto. Rimase immobile, con lo sguardo fisso sulle travi del soffitto. La sola idea di guardare in faccia quel traditore, quell'assassino, quel demone, la ripugnava. Sentiva l’impulso di saltargli alla gola e farlo a brandelli con le mani e coi denti. Ma non ne aveva le forze e preferì ignorare l’istinto piuttosto che vederlo frustrato.
Non riuscì, però, a resistere alla tentazione di voltarsi, quando udì il rumore sordo di qualcosa gettato sul pavimento accanto a lei. Girò appena la testa, quel tanto che bastava per vedere con la coda dell’occhio due oggetti rotondi, ricoperti di una peluria bruna. Dapprima non capì che cosa fossero, ma poi una delle due sfere continuò a rotolare verso di lei, rivelando in un ultimo giro una faccia livida, con occhi e bocca spalancati. Erano due teste. La pelle cerea, le pupille vitree, i capelli e il mento sporchi di sangue incrostato, lì dove una lama le aveva separate dal corpo. 
Polimede fu presa da un conato, che a stento riuscì a trattenere. Nel distogliere lo sguardo da quell'orribile scena, la donna incontrò suo malgrado quello di Pelias, che sfoggiava un affabile sorriso, guardandola dall'uscio della stanza. Dietro di lui una schiava stava in piedi, appoggiata allo stipite della porta, con evidenti segni di violenza sul viso e sulle braccia. Doveva essere stata lei ad avvertire il nuovo padrone del risveglio della sua prigioniera. 

«Avevo ordinato loro di non farti del male, mia signora – riprese Pelias, indicando i due macabri resti – Come vedi, sono stati adeguatamente puniti.». Si avvicinò al letto di Polimede, calciando via una delle teste che lo intralciava. «Purtroppo è difficile trovare uomini capaci di eseguire gli ordini come si deve.», aggiunse. Aveva un’espressione di accondiscendenza sul volto, mentre con una mano si lisciava la barba ben curata, che accennava a incanutirsi. Nonostante l’età non più giovane, tutta la sua persona mostrava una forza ancora notevole e temibile: il collo taurino, le spalle larghe, il busto dritto e solido, come fosse di pietra. Tuttavia la brutalità del suo corpo era ben dissimulata da una maschera di gentilezza, che sapeva indossare con disinvoltura nel momento più opportuno.

Polimede non poteva tollerare un’ipocrisia tanto crudele: «Hanno ben eseguito il più empio dei tuoi ordini! – ringhiò in risposta, con voce rauca – Hanno ucciso il mio sposo. Hanno ucciso tuo fratello! E se avessero ucciso anche me, li avrei benedetti dalle profondità dell’Ade. Eppure le tue mani sono più insanguinate delle loro!». La gola le bruciava tremendamente ad ogni parola, ma non le importava. La vista di quel volto impassibile e soddisfatto alimentava in lei una rabbia più grande del suo dolore. «Che le Erinni ti perseguitino in eterno.», lo maledisse, ritirando lo sguardo. 

Pelias la guardava come si guarda un bambino capriccioso, poco curandosi delle sue maledizioni e ancor meno del suo odio. «Mia cara Polimede, - disse sedendole accanto sul letto – è così che ripaghi la mia pietà? Se non fosse stato per me, adesso giaceresti nella foresta a far da cibo agli uccelli e da concime agli alberi. Dovresti mostrare più gratitudine al tuo salvatore!».

Per tutta risposta, Polimede gli sputò in pieno viso.

Pelias si asciugò la guancia con il dorso della mano, reprimendo in uno sbuffo la voglia di ricambiare l’insulto con un manrovescio. Riprese il sorriso che aveva abbandonato per un istante e disse: «Cerca di essere ragionevole, mia cara cognata. Ti sto dando la possibilità di salvare te stessa e tuo figlio.».
A quella frase, il volto di Polimede si irrigidì. 
«So che è vivo. – continuò Pelias - Dimmi dov’è e a chi l’hai affidato e ti prometto che manderò i miei uomini a prenderlo, per restituirlo alle tue cure. Crescerà qui con te e sarà trattato come uno dei miei figli. Non gli sarà fatto alcun male.».

Polimede scoppiò in una risata soffocata, tanto tremenda quanto inaspettata. «Se queste sono le tue promesse, “mio salvatore”, ringrazio gli dei che il mio bambino sia morto!».
Pelias sbuffò ancora spazientito. La maschera si dissolse. «Non mentirmi, donna! So che l’hai affidato a qualcuno nella foresta. Dimmi a chi, o giuro che assaggerai le pene dell’Ade prima ancora di varcarne le soglie!».

Polimede continuava a ridere in faccia alla frustrazione del suo aguzzino. Poi con un immenso sforzo si alzò sui gomiti, avvicinando ancora di più il suo volto a quello di Pelias. «Mio figlio è morto. – sussurrò, scandendo ogni sillaba – Puoi fare di me ciò che vuoi, puoi divorare le mie carni crude, come il cane che sei, ma non riuscirai a cambiare queste parole. Mio figlio è morto!».
Le iridi di Pelias, dello stesso blu profondo degli abissi marini, furono attraversate da un lampo d’ira, ma lui non emise un fiato. Lentamente, poggiò una mano sulla spalla ferita di Polimede e iniziò a stringerla con forza, obbligando la donna a sdraiarsi di nuovo, tra spasmi di dolore. 
«Riposa, mia signora. Il sonno e il tempo guariranno di certo il tuo enorme lutto.». Disse con la sua solita voce melliflua, prima di alzarsi e lasciare stanza. Polimede emetteva rauchi mugugni per la sofferenza del corpo, ma con gli occhi e le labbra godeva della sua vittoria.

Nell'uscire, Pelias riversò tutta la sua rabbia sulla schiava, che era rimasta a guardare sulla soglia. Afferrandola per i capelli, la spinse violentemente verso il letto di Polimede e ordinò: «Fa’ che viva. Se morirà, tu la seguirai sul rogo». Detto questo, a grandi passi nervosi si diresse verso il megaron.

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