domenica 26 ottobre 2014

Tradimento di sangue (1)

Il corpo senza vita di Esone giaceva immobile in una pozza rossa, che andava espandendosi sotto il flusso continuo dello squarcio aperto nella gola: un colpo di grazia inferto dalla misericordia degli arcieri dopo avergli conficcato due frecce tra le spalle. Il re di Iolkòs non si era mai voltato di fronte al nemico, non era mai fuggito. Neanche allora, neppure di fronte agli assassini che avevano profanato il suo talamo. Eppure aveva dovuto esporre la schiena alla morte: a lui era destinata una sola freccia, l’altra era per sua moglie. Colto nella quiete del suo riposo, il re non aveva altre armi per proteggere la sua regina, se non il proprio corpo. In un ultimo abbraccio, aveva accolto entrambi i dardi, facendosi scudo per la sua sposa, mentre le urla di lei richiamavano le guardie. 
«Salva il bambino.», erano state le ultime parole del re. Poi il bagliore di una lama, uno schizzo di sangue caldo, e la regina Polimede aveva visto il suo sposo crollare ai suoi piedi, come un sacco vuoto. Solo in quel momento i due sicari si accorsero del fagotto che la donna stringeva tra le braccia: piangeva, protestando per il trambusto che l’aveva svegliato.
Ancora impietrita, gli occhi velati di lacrime, la regina guardò gli assassini avventarsi su di lei, attendendo inerme la morte. Il rumore metallico di piedi ferrati sul pavimento della camera, alle spalle dei sicari, la riscosse da quel disperato torpore. Le guardie erano giunte troppo tardi per salvare il re, ma nel momento in cui si avventarono sugli assassini, diedero a Polimede l’occasione di fuggire. Una volta fuori dalla stanza, la donna si ritrovò nel caos più assoluto.

Tutto il palazzo riecheggiava delle urla di servi, ancelle e soldati, trucidati senza pietà nel cuore della notte da stranieri in preda a furore omicida. Rivestiti di rozze armature, tutte diverse e molte mal ridotte, gli invasori squarciavano e trafiggevano senza tregua, impugnando chi spade arrugginite, chi martelli e asce. Un fumo denso riempiva sale e corridoi, esalando da tende, arazzi e persino uomini in fiamme. In quella nebbia infernale la regina riuscì a distinguere la sagoma di un uomo, ritto davanti alle porte spalancate del palazzo: guardava imperturbabile quello spettacolo di distruzione e sembrava quasi goderne. Che fosse lui l’artefice di quell'insensato massacro? Polimede esitò, nel tentativo di riconoscerne il volto, ma il fumo si faceva sempre più denso e se avesse aspettato ancora, avrebbe perso ogni possibilità di fuga. 
Coprì la testa del bambino con la sua coperta e corse via, in cerca di un rifugio, senza saper bene dove cercarlo. Correva tra i corridoi, urtando serve in fuga, che urlavano come vitelli sgozzati, e scavalcando cadaveri di soldati mutilati, maschere di sangue e carne a brandelli. Il fumo la accecava, le riempiva la bocca del suo acre sapore e i polmoni di fuliggine. Guidata solo dal suo istinto e dal suo udito, la regina si spinse nelle zone più silenziose del palazzo, lontane dalle grida di vittime e assassini. A poco a poco si accorse che la luce sinistra degli incendi si faceva più fioca e il fumo si diradava, finché non si ritrovò nell’ala del palazzo riservata alle cucine. Allora, come un lampo, un pensiero, un vago ricordo le venne in mente, dandole forse un’ultima speranza di salvezza. Cercò di ignorare i cadaveri che le intralciavano la strada e imboccò un corridoio laterale, alla fine del quale trovò la piccola porta di cui si era ricordata. La aprì ed entrò in una stanza buia e fredda: il magazzino. 

C’era silenzio, umidità e un vago odore di vino e granaglie. Polimede si prese un istante per asciugarsi gli occhi e a liberarsi i polmoni e la gola dal fumo. Scoprì il bambino, per permettere anche a lui di prendere una boccata di aria pulita. Il piccolo diede un colpo di tosse e guardò sua madre con grandi, languidi occhi neri. Gli occhi di suo padre. Polimede sentì tornare la voglia di piangere, ma si trattenne. Iniziò a camminare per il magazzino, tra anfore alte la metà di lei e sacchi polverosi di farina. Dall'altra parte della stanza doveva esserci una porta che comunicava direttamente con l’esterno: gli schiavi la usavano per portare dentro le scorte di cibo e vino, senza dover trasportare le merci dall'entrata principale attraverso tutto il palazzo. 
La regina si inoltrò tra gli scaffali pieni di utensili, erbe e ampolle che mischiavano i loro odori in un indefinito effluvio stantio, fino a che non trovò anche la seconda porta. I battenti erano completamente scardinati. Impronte di fango e zolle d'erba riempivano il pavimento: gli invasori dovevano essersi introdotti da lì, forzando la serratura...O forse qualcuno li aveva fatti entrare. A quel pensiero Polimede sentì lo stomaco accartocciarsi, ma non c’era tempo per le congetture. 
Stringendo a sé il bambino, si avvicinò all’uscita con cautela. Sentiva il cuore batterle nel petto, così forte da farle quasi male, per il terrore che qualcuno fosse rimasto fuori a sorvegliare l’ingresso. Con il fiato corto, sbirciò da dietro lo stipite e poté tirare un sospiro di sollievo: la via sembrava libera. 

La regina fece un passo sulla terra nuda, ancora piena di diffidenza, tutti i sensi all'erta, attenta ad ogni ombra, ad ogni movimento sospetto. Avanzò un poco, lentamente, nell'aria fredda della notte, illuminata dalla luce della luna piena. La terra umida attutiva il rumore dei suoi passi e tutto era così tranquillo, che a poco a poco la regina cominciava a ritrovare sicurezza.
Una sensazione di breve durata. All'improvviso Polimede fu scossa da un frastuono di passi veloci, ordini e imprecazioni, proveniente dall'entrata del magazzino, dietro di lei: 
«Deve essere passata di qua!».
«Maledetti quei cani idioti che se la sono fatta scappare!».
«Come si fa a farsi sfuggire una femmina con un poppante?!».
Come un cervo braccato, Polimede cominciò a correre per la radura. Avvolse ancora di più il suo bambino tra le braccia, nel tentativo di contenere i suoi vagiti. Correva a perdifiato, senza guardarsi indietro, sebbene sentisse che i suoi inseguitori non erano lontani. 
«Eccola!», gridò uno, indicandola.
«Prendetela! – sbraitò un altro – O Pelias vorrà anche le nostre di teste!».
“Pelias”. All’udire quel nome pronunciato da simili criminali, la regina sentì quasi cederle le gambe.

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